Termine

Disciplina

Specie

Utenti
12229
Schede
512

Enteropatia sensibile agli antibiotici (ARE) nel cane

  • Disciplina: Gastroenterologia
  • Specie: Cane

Il termine enteropatia sensibile agli antibiotici (ARE, Antibiotic-Responsive Enteropathy) identifica un’enteropatia infiammatoria cronica caratterizzata da sintomi gastroenterici che vanno in remissione con una terapia antibiotica. Le enteropatie croniche, così definite quando i sintomi persistono da almeno tre settimane, sono caratterizzate da segni clinici quali vomito, diarrea, borborigmi, dolori addominali, nausea e perdita di peso. La loro diagnosi può essere fatta solo dopo aver escluso la presenza di malattie extraintestinali (patologie epatiche, pancreatiche o renali, ipoadrenocorticismo), malattie infettive, parassitarie e malattie intestinali di altra natura. Le enteropatie croniche possono essere classificate in base alla risposta al trattamento in (1) enteropatia sensibile alla dieta (FRE, Food-Responsive Enteropathy), (2) Enteropatia sensibile alla terapia immunosoppressiva (IRE – Immunosuppressant-Responsive Enteropathy), (3) Enteropatia non sensibile (NRE - Non Responsive Enteropathy).

La presentazione clinica dell’ARE la rende indistinguibile da altre forme di enteropatia cronica e la sua diagnosi viene fatta escludendo altre cause di diarrea cronica. Le caratteristiche dell’ARE sono una notevole risposta al trattamento empirico con antibiotici, seguita da una diarrea recidivante settimane o mesi dopo la sospensione della terapia, e una risposta clinicamente efficace agli antibiotici durante episodio ricorrente di diarrea.

La scuola finlandese ha ulteriormente definito l’ARE in base al principio antibiotico utilizzato, identificando un’enteropatia che risponde all’utilizzo della tilosina con il termine TRD (Tilosyn-responsive diarrhea). Nel gatto, ad oggi, non esiste evidenza scientifica di ARE.

FISIOPATOLOGIA
La fisiopatologia dell’ARE non è ancora completamente conosciuta. Tuttavia, nella patogenesi sembra avere un ruolo primario un avvenuto squilibrio tra la flora microbica residente, l’ospite e il sistema mucosale intestinale. La disbiosi, conseguente a questo squilibrio, è caratterizzata da una alterazione della composizione e della quantità del microbioma intestinale che impatta negativamente sulla salute dell’organismo ospite.

Il ruolo del sistema immunitario nella patogenesi della malattia è al centro di molti studi ma tutt’ora non completamento chiarito. Nei cani affetti da ARE è stato evidenziato un aumento dei linfociti CD4+ a livello di lamina propria e di alcune citochine, quali ad esempio il TNFα (Tumor Necrosis Factor alpha) e il TGF β (Tissue Growth Factor β). Nei Pastori tedeschi è stata ipotizzata alla base della patologia una diminuita produzione di IgA secretorie a livello della mucosa intestinale.

Alcuni studi documentano un’alterazione della permeabilità mucosale e un difetto negli enzimi dell’orletto a spazzola degli enterociti, ma non è completamente chiarito se siano anomalie primarie o secondarie. Anche la carenza di IgA sieriche dimostrata nei Pastori tedeschi non pare completamente correlabile alla loro carenza a livello enterico, e anche il dosaggio delle IgA fecali ha dato risultati variabili nei diversi studi eseguiti. In ultimo, alcuni lavori recenti hanno individuato anomalie genetiche correlate all’espressione delle IGA nei Pastori tedeschi, ma purtroppo tali anomalie sono rilevabili anche in pazienti senza segni clinici di ARE. Questo riscontro rende l’eventuale esame genetico poco specifico e presumibilmente l’alterazione è un fenomeno legato alla razza. La carenza di IgA potrebbe essere, inoltre, solo un epifenomeno correlato alla deficitaria interazione tra la flora microbica e il sistema immunitario innato deputato al controllo dei batteri.

In presenza di ARE, i meccanismi dell’azione patogena batterica sono numerosi: competizione per i nutrienti, danno a livello dell’orletto a spazzola degli enterociti, de-coniugazione dei sali biliari e conseguente malassorbimento dei grassi e idrossilazione degli acidi grassi e dei loro derivati con conseguente iperstimolazione della secrezione del colon. Tutti questi meccanismi concorrono ad alterare la funzionalità della mucosa intestinale, provocando così il processo flogistico che induce a sua volta i segni clinici.

SEGNI CLINICI
Sono più predisposti all’ARE cani giovani e di grossa taglia, con una particolare predisposizione riconosciuta nei Pastori tedeschi. I segni clinici più frequentemente riportati in anamnesi sono diarrea, vomito e perdita di peso. I cani con enteropatia cronica spesso non presentano alterazioni dell’appetito sebbene talvolta si presentano disoressici, con appetito alternante e anoressici. Complessivamente, visto che questa patologia è ancora poco definita, non è possibile escluderla dalle diagnosi differenziali solo in base ai dati epidemiologici e anamnestici. La diarrea cronica e recidivante del piccolo intestino è il segno clinico principale. In alcuni soggetti la manifestazione principale è la colite. Molti pazienti sono polifagici e/o coprofagici. Nei pazienti più gravemente colpiti è possibile rilevare dimagramento o accrescimento stentato.

La stadiazione del paziente enteropatico cronico può essere eseguita mediante indici come il CIBDAI (Canine IBD Activity Index) e il CCECAI (Canine Chronic Enteropathy Clinical Activity Index), i quali permettono anche di valutare la risposta alla terapia.

Il CIBDAI valuta sei segni clinici salienti: attività, appetito, vomito, consistenza delle feci, frequenza di defecazione e perdita di peso. A ciascuno di essi viene assegnato un punteggio da 0 a 3 dove 0 indica la normalità, 1 variazioni lievi, 2 variazioni moderate e 3 variazioni gravi.

I valori assegnati vengono sommati per ottenere il CIBDAI totale, che va interpretato secondo il seguente schema: 0-3 clinicamente insignificante, 4-5 enteropatia lieve, 6-8 enteropatia moderata, 9 o valori superiori enteropatia grave (Jergens et al., 2003).

Il CCECAI adotta i medesimi criteri del precedente indice ma comprende tre parametri aggiuntivi: albuminemia, presenza di ascite ed edemi periferici, presenza di prurito. Essi vengono valutati allo stesso modo dei precedenti con un punteggio da 0 a 3. Il CCECAI risulta molto più accurato nel predire la prognosi (Tabella 2). (Allenspach et al., 2007).

DIAGNOSI
La diagnosi certa di ARE non è facile da ottenere perché ad oggi non esiste un unico test o una combinazione di test sensibili e specifici che ci permettano di differenziarla dalle altre enteropatie croniche. Per indagare le possibili cause alla base della sintomatologia ci si avvale di esami di laboratorio, tra cui il primo da eseguire è l’esame coprologico grazie al quale possiamo escludere o accertare la presenza di parassiti intestinali in grado di giustificare la sintomatologia clinica. Le analisi preliminari sono volte a escludere patologie metaboliche e a fare un quadro della gravità della patologia gastrointestinale, e comprendono un prelievo di sangue per l’esecuzione di un esame emocromocitometrico ed ematobiochimico. Dopo aver escluso patologie extraintestinali in pazienti stabili (perdita moderata di peso, protidemia normale, assenza di linfoadenopatia) la misurazione dei folati e della cobalamina aiuta a determinare se è necessaria la loro integrazione e a stabilire una prognosi (Allenspach, 2007). La concentrazione di folati e di cobalamina sierica riflette l’equilibrio tra l’assunzione con la dieta, il metabolismo batterico, l’assorbimento intestinale ed eventuali perdite da parte dell’organismo. La cobalamina, nota anche come vitamina B12, diminuisce quando c’è un’affezione del piccolo intestino (Berghoff e Steiner, 2011). Un calo della cobalamina si registra anche in una condizione di disbiosi intestinale poiché alcuni batteri anaerobi possono fungere da competitor nel consumo della cobalamina (Singh e Toskes, 2003). Livelli sierici inferiori a 200 ng/l sono associati a una prognosi negativa (Allenspach et al., 2007). I folati, assunti per lo più con la dieta, sono anch’essi assorbiti nel piccolo intestino ma a differenza della cobalamina, nel segmento prossimale (Berghoff e Steiner, 2011). Alcuni batteri che costituiscono il fisiologico ecosistema batterico del piccolo intestino sono in grado di sintetizzare folati che rilasciati nel piccolo intestino vengono assorbiti dall’ospite. Un aumento dei folati nel siero può essere correlato a una disbiosi batterica (Batt et al., 1983). Alla radiografia, utile per avere una visione di insieme ed escludere patologie chirurgiche, si associa l’esame ecografico che ci permette di individuare la peristalsi, la struttura della parete, il suo spessore e il contenuto. L’ecografia ha inoltre un’ottima sensibilità per il rilevamento di masse, invaginamenti e linfoadenopatie (Hall e German, 2010). La decisione di ricorrere all’endoscopia si basa sulla valutazione clinica della gravità della malattia, alla risposta a precedenti trattamenti empirici, ai risultati dei test di laboratorio e ai risultati di altre tecniche di diagnostica per immagine non invasive (ad es., radiologia addominale e ultrasuoni) (Chamness, 2013). L’endoscopia permette all’operatore di osservare la mucosa di esofago, stomaco, duodeno, ileo e colon potendo valutare possibili alterazioni macroscopiche. I cambiamenti macroscopici non sono mai patognomonici per un solo processo patologico; pertanto, durante l’esame endoscopico dell’intestino tenue si effettuano prelievi bioptici della mucosa per l’esame istologico (Kleinschmidt et al., 2006; Chamness, 2013). Istologicamente non ci sono evidenti differenze tra FRE, ARE o IRE (Allenspanch et al., 2007; Schreiner et al., 2008). Ciò sottolinea l’importanza di ricorrere all’esame endoscopico solo dopo aver effettuato un corretto trial terapeutico o in presenza di segni clinici gravi che impongono la rapida valutazione di una eventuale enteropatia proteino-disperdente (PLE).

La classificazione e la successiva diagnosi delle enteropatie si basa prevalentemente sulla risposta clinica e laboratoristica alle terapie ex juvantibus, le quali prevedono un trattamento per endoparassiti, una dieta di eliminazione, l’introduzione di un antibiotico e infine, dopo aver eseguito prelievi bioptici, l’introduzione di un farmaco immunosoppressivo (Simpson e Jergens, 2011). Una positività al cambio di dieta è suggestiva di enteropatia sensibile al cambio di alimentazione, definizione che include sia le allergie che le intolleranze alimentari (Simpson e Jergens, 2011). La dieta impiegata non deve contenere nessuna componente proteica che l’animale abbia già assunto in passato. Si somministra una nuova fonte proteica, nei confronti della quale l’animale non si sia già sensibilizzato, o proteine idrolizzate, ovvero proteine inferiori ai 1000 Dalton che non consentano un’attivazione diretta dei mastociti (Mandigers et al., 2010; Zoran, 2010). Con l’esclusione dalla dieta dell’allergene responsabile dell’enteropatia, la maggior parte dei pazienti risponde clinicamente entro pochi giorni, fino a massimo di quattordici giorni (Marks et al., 2002; Allenspach et al., 2007). Qualora la dieta di eliminazione non abbia portato alla remissione dei segni clinici, si procederà con il trattamento antibiotico. Gli antibiotici più usati in caso di enteropatie croniche sono tilosina, metronidazolo e ossitetraciclina (Dandrieux, 2016). Se anche la terapia antibiotica fallirà, allora si procederà con prelievi bioptici, endoscopici o laparotomici, finalizzati a un’analisi istopatologica e con una seguente terapia immunosoppressiva. Quest’ultima è il fulcro del trattamento delle IRE e della PLE. I farmaci immunosoppressivi più utilizzati sono i corticosteroidi (prednisolone e budesonide), l’azatioprina, la ciclosporina e il clorambucile (Dandrieux, 2016). Il fine primario della terapia immunosoppressiva è il controllo della sintomatologia (Farrell e Kelleher, 2003). Alla terapia immunosoppressiva vengono affiancate valutazioni cliniche ed esami collaterali che ci permettono di valutare il decorso della patologia. La gravità dei segni clinici, la concentrazione delle albumine sieriche e della cobalamina, l’aspetto macroscopico visualizzabile in endoscopia e il risultato istologico possono tutti influenzare le valutazioni terapeutiche e rappresentare importanti segni prognostici (Simpson e Jergens, 2011). Dalla necessità di oggettivare i dati anamnestici e clinici e al fine di valutare la gravità dei sintomi, la risposta alla terapia e la progressione delle enteropatie croniche sono stati messi a punto degli indici. Il più usato è il già citato CIBDAI che si compone di 6 parametri, indipendenti l’uno dall’altro a cui viene assegnato 0 se il parametro valutato è normale; 1 se è lievemente alterato; 2 se è moderatamente alterato; 3 se presenta un’alterazione grave. I parametri comprendono l’attività del paziente, l’appetito, il vomito, la consistenza delle feci, la frequenza della defecazione e la perdita di peso (Jergens et al., 2003). Sommando i punteggi assegnati alle varie voci si ottiene un valore indicante la gravità della patologia, che può essere clinicamente insignificante, lieve, moderata o grave.

Nell’iter diagnostico un dato fondamentale per sospettare la ARE deriva dall’anamnesi. La buona risposta clinica e sintomatica alla terapia antibiotica e soprattutto la rapida recidiva dei sintomi dopo la sospensione dei farmaci deve far ipotizzare la presenza di ARE.

Con questo obiettivo nel tempo sono stati proposti diversi esami di laboratorio. Il dosaggio dell’idrogeno nell’espirato, seppur sia teoricamente un buon test (i batteri sono gli unici produttori di idrogeno), non è attendibile per la diagnosi di ARE poiché altre cause di malassorbimento dei carboidrati possono indurre un aumento del numero di batteri produttori di idrogeno, e inoltre la metodica analitica è difficilmente standardizzabile.

La misurazione degli acidi biliari non coniugati (SUCA) non è risultata attendibile e non viene utilizzata. Anche i test di permeabilità intestinale come la misurazione di cr-EDTA o l’assorbimento degli zuccheri possono essere alterati in corso di ARE, ma non in maniera specifica e senza valore patognomonico. Inoltre, si tratta di test complessi da eseguire ed attualmente non utilizzati. La valutazione dei marker del metabolismo batterico come il p-nitrosonaftolo o l’acido glicolico potrebbe essere utili in corso di ARE e SIBO, benché non sia certo che l’aumento numerico dei batteri si verifichi sempre; ciò nonostante, al momento non esistono studi che ne confermino l’attendibilità. La ricerca di metaboliti di sostanze introdotte per via orale come l’acido paraminobenzoico (PABA) è stata indagata, ma le indicazioni ottenute sono aspecifiche.

L’iter diagnostico di un’enteropatia cronica porta spesso all’esecuzione di un esame endoscopico (Figg. 1 e 2) e successivamente istopatologico; purtroppo non esistono alterazioni istologiche patognomoniche per ARE e quindi le indicazioni che si ottengono sono aspecifiche e possono essere addirittura fuorvianti, perché sono generalmente compatibili anche con la diagnosi di IBD.


In conclusione, per ottenere una diagnosi definitiva di ARE è necessario eliminare tutte le altre cause note di enteropatia cronica, eliminare altre cause di disbiosi intestinale, avere una risposta clinica adeguata alla terapia antibiotica ed evidenziare la recidiva dei sintomi dopo la sua sospensione.

TERAPIA
Come precedentemente discusso, il trattamento delle enteropatie croniche nel cane prevede, dopo il fallimento di un corretta dieta di eliminazione, l’introduzione di una terapia antibiotica (Dandrieux, 2016) che, nonostante sia efficace nel controllo della sintomatologia, provoca importanti alterazioni della composizione del microbiota, tali da esitare in stati di disbiosi intestinale.

In particolare, da un lavoro condotto da Suchodolski et al. (2009) sull’utilizzo della tilosina in cani sani, è emersa una riduzione della quantità di batteri appartenenti ai phyla Firmicutes, Fusobacteria e Bacteroidetes, generalmente associati ad uno stato di salute intestinale, e un aumento di specie batteriche quali Escherichia Coli e Clostridium perfringens, associati, invece, all’insorgenza di patologie intestinali (Suchodolski et al., 2009). Anche Manchester et al. (2019) hanno dimostrato una riduzione del phylum Fusobacteria e di alcuni generi batterici appartenenti ai Firmicutes, tra i quali anche Clostridium hiranonis, principale responsabile della conversione degli acidi biliari primari in secondari. A questo proposito, lo stesso studio ha evidenziato un aumento della concentrazione degli acidi biliari primari che influenzano negativamente l’omeostasi intestinale. Tale effetto è rimasto evidente anche a distanza di sessanta giorni dalla somministrazione di tilosina e, inoltre, è stata evidenziata una persistente alterazione dell’indice di disbiosi in alcuni pazienti. Questi risultati suggeriscono un potenziale impatto a lungo termine di questo antibiotico sul microbiota.

Come la tilosina, anche il metronidazolo influenza la composizione del microbiota ed il metaboloma, definito come l’insieme dei metaboliti presenti a livello intestinale derivati dal metabolismo microbico. È stato dimostrato, infatti, che causa un’alterazione significativa nella ricchezza e nell’uniformità delle popolazioni batteriche presenti. In particolare, si verifica una riduzione dell’abbondanza totale dei phyla Fusobacteria e Bacteroidetes mentre per quanto riguarda i Firmicutes, questi non si presentano complessivamente alterati, ma si evidenzia una diminuzione dei batteri appartenenti all’ordine Clostridiales ed un aumento di quelli appartenenti all’ordine Lactobacillales (Igarashi et al., 2014). Tali cambiamenti si riflettono inevitabilmente sul metaboloma provocando una riduzione di SCFA, acidi biliari secondari, vitamine ed antiossidanti ed un aumento dei livelli di lattato fecale, fattore associato alla condizione di enteropatia cronica. Dallo studio di Pilla et al. (2020) è emerso che le alterazioni a carico del metaboloma persistono oltre le quattro settimane dalla somministrazione dell’antibiotico, suggerendo anche per il metronidazolo un possibile effetto a lungo termine (Pilla et al., 2020). Gli antibiotici, nonostante la loro azione terapeutica, possono influenzare negativamente il microbioma intestinale e contribuiscono ad incrementare il fenomeno dell’antibiotico-resistenza.

Attualmente, vengono spesso sostituiti con altre tecniche di modulazione del microbiota intestinale, come l’utilizzo di probiotici e il trapianto di microbiota fecale (Isidori et al., 2022).

È stato dimostrato, però, che gli antibiotici modificano notevolmente la composizione e la ricchezza del microbiota intestinale. Le alterazioni persistono per settimane, suggerendo quindi un possibile effetto deleterio sulla salute del tratto gastrointestinale di una terapia antibiotica a lungo termine. In particolare, l’azione degli antibiotici sembra essere associata ad un aumento delle Enterobacteriaceae, batteri in grado di provocare lesioni della mucosa intestinale e il perdurare della sintomatologia. Per questi motivi la terapia antibiotica può essere sostituita con altre tecniche di modulazione del microbiota come i probiotici o il trapianto di microbiota fecale.

Prima di utilizzare un antibiotico, quindi, sarebbe meglio accertare la presenza di una infezione mediante FISH (Fluorescence in situ hybridisation) ed eseguire un antibiogramma in modo da scegliere il farmaco più adatto (Dandrieux, 2016).

Attualmente l’unica forma di enteropatia per la quale è necessario utilizzare un antibiotico, nello specifico i chinoloni, è la colite granulomatosa causata da Escherichia coli. Tra i chinoloni, l’enrofloxacina è la più utilizzata. (Craven et al., 2011).

Non esiste una cura che permetta di risolvere la ARE idiopatica ma con la terapia antibiotica è possibile controllarne i segni clinici. Gli antibiotici storicamente utilizzati per il trattamento sono l’ossitetraciclina, il metronidazolo e la tilosina. L’ossitetraciclina, veniva utilizzata a un dosaggio di 10-20 mg/kg PO q8-12h. L’ossitetraciclina è secreta nella bile e poi introdotta nel circolo enteroepatico e raggiunge livelli di penetrazione elevati a livello intestinale e nella bile. Poiché l’azione terapeutica viene espletata a livello endoluminale, quando possibile l’ossitetraciclina dovrebbe essere somministrata per via orale. Questo agente non andrebbe somministrato ai soggetti con dentizione non definitiva in quanto può alterare la colorazione dello smalto dentale. I meccanismi alla base della sua azione non sono stati del tutto chiariti e oggi il suo utilizzo è sconsigliato poiché associato uno sviluppo rapido di antibiotico-resistenza mediata da plasmidi batterici.  Il metronidazolo, (10-15 mg/kg q8-12h) usato tradizionalmente per trattare le diarree sostenute da Giardia spp., ha mostrato benefici nella terapia delle ARE per il suo effetto immunomodulatore. Il suo utilizzo è stato tuttavia fortemente limitato negli anni per gli effetti negativi che esercita sul microbioma intestinale. La tilosina, un macrolide, ampiamente utilizzato nel settore zootecnico. Alla tilosina viene riconosciuto anche un effetto antinfiammatorio, oltre che batteriostatico e immunomodulatore. L’effetto antinfiammatorio è stato ipotizzato essere dovuto alla modulazione della ciclossigenasi-2, e alla capacità di indurre di diverse citochine antinfiammatorie.

Il trattamento con tilosina o metronidazolo crea una buona risposta nel paziente ma con effetti a breve termine; ciò comporta trattamenti di lunga durata che pongono il problema dell’antibiotico-resistenza. È noto che l’antibiotico apporta cambiamenti momentanei alla composizione del microbiota, che sospesa la terapia, torna rapidamente al suo stato pretrattamento. Ciò può comportare la necessità di un trattamento ad vitam per la maggior parte dei pazienti. Un trattamento prolungato della terapia antibiotica può impattare negativamente non solo sulla salute del microbiota intestinale ma anche sul fenomeno dell’antibiotico-resistenza (Damborg et al., 2008).

La gestione terapeutica dei soggetti affetti da ARE può beneficiare anche dell’utilizzo di probiotici e prebiotici, seppur non ne sia dimostrata la reale efficacia. La dieta è un fattore rilevante in tutte le enteropatie ed anche in corso di ARE è consigliabile una dieta altamente digeribile e povera di grassi o una dieta ipoallergica commerciale o casalinga. Nei casi di ipocobalaminemia associata a ARE è necessario eseguirne l’integrazione nei dosaggi e nei modi già descritti in corso di IBD.

L’antimicrobico resistenza è la capacità di un microrganismo di sopravvivere e moltiplicarsi sotto l’azione di un farmaco antibiotico che ne dovrebbe inibire la crescita o provocare la morte. La terapia antibiotica in medicina umana e veterinaria rappresenta il cardine del trattamento delle infezioni ad eziologia batterica. Tuttavia, il loro utilizzo spropositato o un errore di posologia e di durata del trattamento può portare all’insorgenza di ceppi batterici resistenti (Green e Boothe, 2012). La resistenza batterica è un fenomeno ingravescente e sempre più frequentemente la terapia antibiotica fallisce nel trattamento delle infezioni batteriche determinando conseguenze infauste per il paziente. L’acquisizione della resistenza è un processo sia naturale, dettato dalla genetica del batterio, sia un processo indotto dalla pressione selettiva a sua volta supportata da somministrazioni empiriche di molecole antibiotiche, somministrazioni a scopo preventivo e uso incongruo (Wayne et al., 2011). La somministrazione di un antimicrobico dovrebbe essere valutata in base all’immunocompetenza dell’ospite, la compromissione clinica, e la resistenza di un organismo (Green e Boothe, 2012). Attualmente lo sviluppo di nuovi agenti terapeutici per combattere le infezioni è un punto cardine della ricerca scientifica. Sebbene vi siano indicazioni che l’uso strategico di prebiotici e probiotici possa fornire grandi benefici, mancano ancora conoscenze di base sulle delicate interazioni tra microbiota, ospite e probiotici. Ciò pone oggi un limite all’utilizzo di questi farmaci (Brussow, 2017). Lo slogan della giornata europea degli antibiotici (2017) sottolinea come l’antibiotico resistenza sia un problema critico di salute pubblica a livello mondiale e “Utilizzare gli antibiotici in modo responsabile è una responsabilità di tutti”.

Bibliografia


  1. Batt RM, Barnes A, Rutgers HC, et al. Relative IgA deficiency and small intestinal bacterial overgrowth in German shepherd dogs. Res Vet Sci 1991;50:106–11.
  2.  German AJ, Hall EJ, Day MJ. Measurement of IgG, IgM and IgA concentrations in canine serum, saliva, tears and bile. Vet Immunol Immunopathol 1998;64:107–21.
  3. Peters IR, Calvert EL, Hall EJ, et al. Measurement of immunoglobulin concentrations in the feces of healthy dogs. Clin Diagn Lab Immunol 2004;11:841–8.
  4. Littler RM, Batt RM, Lloyd DH. Total and relative deficiency of gut mucosal IgA In German shepherd dogs demonstrated by faecal analysis. Vet Rec 2006;158:334–41.
  5.  Peters IR, Helps CR, Calvert EL, et al. Identification of four allelic variants of the dog IGHA gene. Immunogenetics 2004;56:254–60.
  6.  Peters IR, Helps CR, Lait PL, et al. Detection of allelic variants of the canine IGHA gene by fluorescence resonance energy transfer melting temperature examination. J Immunol Methods 2005;304:60–7.
  7. German AJ, Helps CR, Hall EJ, et al. Cytokine mRNA expression in mucosal biopsies from German Shepherd dogs with small intestinal enteropathies. Dig Dis Sci 2000;45:7–17.
  8. Peters IR, Helps CR, Calvert EL, et al. Cytokine mRNA quantification in duodenal mucosa from dogs with chronic enteropathies by real-time reverse transcriptase polymerase chain reaction. J Vet Intern Med 2005;19:644–53.
  9.  Rutgers HC, Batt RM, Elwood CM, et al. Small intestinal bacterial overgrowth in dogs with chronic intestinal disease. J Am Vet Med Assoc 1995;206:187–93.
  10. German AJ, Day MJ, Ruaux CG, et al. Comparison of direct and indirect tests for small intestinal bacterial overgrowth and antibiotic-responsive diarrhea in dogs. J Vet Intern Med 2003;17:33–43.
  11.  Marks SL. Editorial: small intestinal bacterial overgrowth in dogs—less common than you think? J Vet Intern Med 2003;17:5–7.
  12. Mudry MD, Carballo M, Labal de Vinuesa M, Gonzalez Cid M, Larripa I. Mutagenic bioassay of certain pharmacological drugs: III. Metronidazole (MTZ).   Mutat Res. 1994 Mar 1;305(2):127-32
  13. Kilpinen S, Spillmann T, Syrjä P, Skrzypczak T, Louhelainen M, Westermarck E Effect of tylosin on dogs with suspected tylosin-responsive diarrhea: a placebo-controlled, randomized, double-blinded, prospective clinical trial. Acta Vet Scand. 2011 Apr 14;53:26.
  14. Suchodolski JS, Dowd SE, Westermarck E, Steiner JM, Wolcott RD, Spillmann T, Harmoinen JA.The effect of the macrolide antibiotic tylosin on microbial diversity in the canine small intestine as demonstrated by massive parallel 16S rRNA gene sequencing. BMC Microbiol. 2009 Oct 2;9:210.
  15. Westermarck E, Frias R, Skrzypczak T. Effect of diet and tylosin on chronic diarrhea in beagles. J Vet Intern Med. 2005 Nov-Dec;19(6):822-7.
  16. Westermarck E, Skrzypczak T, Harmoinen J, Steiner JM, Ruaux CG, Williams DA, Eerola E, Sundbäck P, Rinkinen M. Tylosin-responsive chronic diarrhea in dogs. J Vet Intern Med. 2005 Mar-Apr;19(2):177-86
  17. Chugh TD, Babaa E, Burns G, Shuhaiber H. Effect of sublethal concentration of antibiotics on the adherence of Staphylococcus epidermidis to eukaryotic cells. Chemotherapy 1989;35:113–118.
SCIVAC

Novità editoriali

Eventi

Sponsorizzato da Advantix e Seresto
0
Shares

Like what you see?

Hit the buttons below to follow us, you won't regret it...

0
Shares